Renzo Rossellini: ‘‘Il cinema di mio padre: un atto d’amore’’
L’intervista con il figlio del grande regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. L’International Tour Film Festival oggi ricorderà il Maestro
di Flavia Bazzano
CIVITAVECCHIA – Tra i tanti figli d’arte del cinema italiano, Renzo Rossellini, figlio di Roberto Rossellini, si distingue per una biografia fuori dal comune. Attivista politico, fondatore di Radio Città Futura e della scuola Gaumont Italia, Renzo (detto Renzino) ha trovato la propria strada nella collaborazione con il padre in qualità di produttore cinematografico, regista e aiuto regista. I due lavorano fianco a fianco fino al 1976, quando Roberto viene stroncato da un infarto. Oggi Renzo è un docente promotore dell’arte audiovisiva tra i giovani ed è il primo divulgatore della smisurata eredità lasciata da Roberto Rossellini al cinema italiano. A quarant’anni dalla sua scomparsa, l’International Tour Film Festival ricorderà il Maestro con una serata speciale, il 6 ottobre. In programma la consegna di un riconoscimento a Renzo Rossellini e la proiezione del lungometraggio “Roberto Rossellini – C’era una volta un uomo” di Donatella Baglivo.
– Cosa significa per lei ricevere questo riconoscimento per la sua opera di promozione del contributo indimenticabile che suo padre ha dato al cinema italiano?
Quando è morto mio padre ho sofferto molto come figlio e come italiano perché sentivo che veniva a mancare in Italia qualcosa di fondamentale e anzi, di unico. Qualcuno che voleva usare un poderoso mezzo di comunicazione come il cinema, prima, e come la televisione, dopo, per aiutare gli uomini ad essere più intelligenti, quindi migliori e a vivere in una società con più senso di responsabilità.
– A giugno, in occasione del Festival di Pesaro, aveva lamentato la mancanza di attenzione, non solo mediatica, ma dell’intera comunità del cinema, dell’anniversario dei quarant’anni dalla sua scomparsa di suo padre. Trova che in questi mesi, alla fine, sia stata ritrovata la voglia di ricordare Roberto Rossellini anche in Italia?
Mi sembra molto poco, francamente. D’altronde capisco che qualcuno che ha fatto la maggior parte della propria opera in un secolo passato sembra e si sente morto, come noi sentiamo morti i grandi della letteratura del secolo passato. Per essere attuali bisogna essere vivi e presenti e mio padre non è né vivo né presente da quarant’anni.
– Sempre a Pesaro, ha rivelato al pubblico l’ultima lettera di suo padre, indirizzata a lei nel dicembre 1976, cosa l’ha spinta a divulgarla?
Per far capire che rapporto c’era tra me e mio padre, il tipo di rispetto che lui aveva avuto per me per come avevo collaborato con lui per vent’anni. Mi sentiva il suo erede e per me questa eredità era un onore, quindi divulgare la lettera era anche un modo per vantarmi di essere l’erede di Roberto Rossellini.
– Con questa lettera il grande regista la incaricava di completare la prima Enciclopedia della Storia audiovisiva, sottolineando la volontà di fare del cinema “un’arte utile agli uomini”. In che modo spiegherebbe questo concetto?
Mettendo insieme i suoi film, mio padre ne ha fatti molti durante la guerra e nel dopoguerra, ed erano film contro la guerra, film per la pace e volti ad educare alla pace. Un’altra cosa è che ho notato è che stato l’unico della sua generazione a non aver mai rappresentato una donna nuda, ma solo donne come portatrici di grandissimi valori umani e d’intelligenza. Questo era, credo, il suo essere contro qualunque tipo di pregiudizio: contro i pregiudizi contro la donna come essere inferiore (come la cultura italiana disgraziatamente porta a essere) e contro tutti i pregiudizi, che stiamo vivendo ora, contro etnie differenti, colori differenti, religioni differenti. Essere aperti, rispettare le intelligenze e saperle riconoscere dovunque siano.
– Nell’intervista pubblicata sul canale youtube ufficiale della 53a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ha sottolineato come il cinema avesse il potere di liberare il mondo dall’ignoranza, dalle guerre, dalle propagande. In un periodo in cui anche nell’informazione l’emergenza e la carica emotiva possono alterare la percezione di una notizia, è ancora possibile fare questo tipo di cinema?
È una difficile risposta perché vedo che tutto quello che è cultura è odiato dal potere politico perché la cultura è libertà di pensiero, quindi non subisce la propaganda che è invece lo strumento di controllo che il potere ha sulla gente. Far diventare la gente libera col cervello vuol dire liberarla dalla dipendenza dalle propagande. Accendo la televisione, guardo il telegiornale e vedo gli ordini dati dal potere al direttore del giornale, che obbedisce e dice delle cose falsificando la verità. Sull’economia sento dire che l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo nascondendo la tragedia della tanta disoccupazione giovanile e disoccupazione in generale, come di altri problemi. C’è come una specie di inefficienza nel sistema che non è mosso dal grande motore che è l’amore e il rispetto per chi sta soffrendo. Io sono stato educato all’amore e al rispetto come motori della vita. Questo è stato mio padre per me, un portatore d’amore e i suoi film sono sempre stati un atto d’amore. Quando sono usciti i film del Neorealismo nel dopoguerra, l’Italia era stata vista e vissuta da tutto il mondo come alleata del nazismo di Hitler. Questi film hanno dato dell’Italia un’immagine diversa, un’Italia che aveva avuto anche martiri antifascisti ed eroi della Resistenza. Hanno aiutato l’Italia a rientrare nel mondo civile.
– Nella stessa lettera suo padre confessa intimamente “ti ho torturato per anni”: in una collaborazione padre-figlio tanto stretta e duratura, immaginiamo che ci siano stati momenti di tensione, ma anche di grande sintonia. Quali sono quelli che ricorda come i momenti più belli?
La sintonia è esplosa appena ho cominciato a lavorare con lui. Dopo quella espressione la frase continua con “invece di lasciarti seguire le tue aspirazioni”. All’epoca ero un militante rivoluzionario che partecipava alle guerre anticoloniali. Mio padre sapeva che partivo per situazioni in cui dovevo portare un Kalashnikov sulla spalla, in zone dove si sparava, e io dovevo uscirne vivo, quindi era un padre molto preoccupato per le mie scelte, e per quella che era la mia pratica di vita. Mi ha messo a lavorare con lui per non farmi andare più in situazioni di guerra.
– Potremmo dire che questo è stato l’atto d’amore che suo padre ha riservato a lei.
Sì, e io me ne sono reso conto, ho capito che lo faceva perché da una parte era d’accordo che bisognava combattere contro le ingiustizie del mondo come i colonialismi e i fascismi, però dall’altra era preoccupato che mi ammazzassero a sedici, diciotto anni. Mi vedeva anche come suo erede nel lavoro, quindi mi ha messo subito a lavorare e a scrivere con lui e a realizzare le serie televisive sulla storia.
-Quindi le ha offerto un altro canale per impegnarsi nelle lotte civili.
Sì. Lui credeva che fosse più importante e più moderno entrare nelle case nelle quali la televisione, questo un mezzo potentissimo, era solo quella di Mike Bongiorno e dei telequiz invece di essere usata per aiutare la gente a migliorare.
– Nel 2010 ha prodotto l’ultimo, provocativo corto di Mario Monicelli: “La nuova armata Brancaleone”, ovvero il film che non abbiamo visto “per colpa dei tagli alla cultura”. Trova che la situazione, a sette anni di distanza si sia sbloccata?
Non credo. Credo che sia vergognoso che l’Italia abbia ancora un sistema di censura, è l’unico paese in Europa che censura il cinema quando la libertà di comunicazione è una delle grandi regole del mondo civile. mettere ostacoli alla libertà d’espressione è inciviltà.
– Da insegnante si è dovuto confrontare non solo con il susseguirsi di generazioni di giovani che vogliono affacciarsi al mondo del cinema, ma anche con l’evoluzione tecnologica che consente la realizzazione di cortometraggi e lungometraggi anche con mezzi più economici rispetto al passato, persino uno smartphone. A questa sorprendente accessibilità dei mezzi, trova che corrisponda un fermento creativo o un incremento della qualità dei prodotti cinematografici?
Il cinema è cresciuto attraverso le sue tecnologie, dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore. Il primo costo per fare un film era comprare la pellicola: già il fatto che adesso non ci sia più bisogno di fare questo investimento, e poi girarla e portarla in uno stabilimento di sviluppo e stampa, ha reso il cinema molto più libero dal sistema commerciale e dalle leggi di mercato per le quali il film deve avere grandi star che portino la gente al cinema, o comunque come il pubblico lo vuol vedere. Credo che le nuove tecnologie abbiano liberato moltissimo il cinema. Se i giovani fossero spinti a farlo il cinema, potrebbero farlo con il loro smartphone. Anni fa, mentre ero in Costiera Amalfitana, avevo scoperto una scuola media che aveva fatto scandalo perché avevano usato i cellulari per atti di bullismo contro delle studentesse: allora sono andato a parlare con la Preside e le ho detto che volevo insegnare a questi ragazzi a usare il cellulare per fare qualcosa di migliore degli atti di bullismo. La Preside me lo ha permesso, ho insegnato ai giovani a scrivere delle storie di cinema e loro le hanno scritte e se le sono realizzate con i loro cellulari. Ed erano filmini carinissimi, fatti con intelligenza perché, essendo nati davanti alla televisione, i giovani sanno come raccontare per immagini, dovrebbero imparare a farlo. Io le scuole di cinema le ho fatte perché mio padre, tra le sue ultime attività, era stato Presidente dell’Istituto di Cinematografia Sperimentale, che era stato fondato da Mussolini quindi aveva uno statuto antichissimo; lui lo aveva cambiato e aveva adottato nuove regole. Diceva sempre: “Il cinema non si impara sui libri, ma si impara facendolo e i libri di testo sono i film, vedere i film e cercare di interpretarli e capirli sia dal punto di vista del racconto, sia della forma del racconto per immagini, sia da quello della tecnologia che c’è dentro ogni scelta di regia”. Quindi io ho adottato questo insegnamento da mio padre. Mettendo subito una telecamera in mano agli studenti e facendo fare a ognuno di loro un filmino corto alla fine del corso di cinema, ho realizzato un film che era una serie di corti, “Corti di cervello” era il titolo che gli avevano dato, ed era un film molto carino. Questo avveniva in una scuola di cinema che avevo fatto a Terni. Il cinema si può insegnare con regole semplici e non burocratiche come fanno in tante scuole di cinema.
– In un’intervista del 2012 per ta1news ha dichiarato che lo stereotipo delle scuole di cinema come scuole per disoccupati è confutato dalla crescente domanda del settore audiovisivo. Pensa che le piattaforme online come Netflix potranno rivelarsi strumenti all’altezza del compito di diffondere il cinema?
Senz’altro. A parte Netflix esiste Youtube, dove si possono trovare anche film interi e interviste di mio padre. Internet dovrebbe diventare lo strumento migliore per educare. È come un immenso sapere che uno può raggiungere, interrogare e avere delle risposte, c’è tutto, ormai. È molto più facile che entri nel cervello una cosa vista piuttosto che una letta, perché le immagini toccano altre cellule cerebrali. Sia il cinema che internet potrebbero servire a rendere l’uomo del futuro un uomo tanto migliore. Però dovrebbero pensarci i Governi e i Ministeri: esistono questi poderosi sistemi, dovrebbero essere messi a disposizione fin dalla prima elementare.
– Quindi le polemiche sulle due produzioni Netflix proiettate a Cannes 2017, Okja e Snowpiercer, possono considerarsi sterili o anacronistiche?
Credo di sì. D’altronde, pochi giorni prima di morire, mio padre era stato presidente del Festival di Cannes e si è battuto per far vincere un film dei fratelli Taviani, “Padre padrone”. Fu un grande scandalo, se ne parlò anche sui giornali, perché era la prima volta nella storia del Festival di Cannes che vinceva un film fatto per la televisione, non uno per il cinema. Adesso si scandalizzano perché ci sono film fatti per altri media, è la stessa cosa.
– Crede che, con la diffusione di serie tv, corti e lungometraggi proprio attraverso questo tipo di piattaforme online, il modo in cui si guarda un film sia cambiato? In che direzione pensa che si evolverà la fruizione del cinema?
Il fatto che la gente sia alfabetizzata a leggere le immagini cinematografiche rende molto più facile vedere un film. Il racconto audiovisivo è un linguaggio con la sua grammatica. Prima i contadini andavano al cinema e capivano poco di quello che stava raccontando il film, invece adesso, dopo più di cinquant’anni di televisione, la gente è alfabetizzata al nuovo mezzo di comunicazione, è un po’ come per la musica. Spero che stiamo andando verso un mondo completamente alfabetizzato al mezzo audiovisivo. Se riuscissi a mettere online l’Enciclopedia della Storia Audiovisiva fatta da me e mio padre, sarebbe uno strumento educativo straordinario.
– Per concludere l’intervista, una domanda che spazia in un campo diverso. A 52 anni dalla fondazione di Radio Città Futura pensa che ci sia ancora posto per un medium che si rifiuta ostinatamente di cedere il passo?
La parola è più seducente di tanti altri sistemi di comunicazione. L’uso della parola è stato un mio mestiere per tanti anni, ho inventato Radio Città Futura perché ero preoccupato dello sbandamento di molti giovani verso il terrorismo, quindi mi sono detto: “E se invece di dargli una pistola gli mettessimo in mano uno strumento per parlare”? Quei giovani ora me li rivedo come mezzibusti nel tg Rai della notte, me li ritrovo ovunque. A dire la verità, me ne ritrovo uno anche Presidente del Consiglio: Paolo Gentiloni è stato uno dei giovani di Radio Città Futura! Lui era uno studente della Sapienza, aveva occupato la Facoltà di Lettere ed era venuto a portare i motivi della loro occupazione e lì poi è rimasto finché la radio è stata attiva. Radio Città Futura ha creato giornalisti e persino Presidenti del Consiglio.
Intervista a Renzo Rossellini
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