In un mio precedente intervento ho auspicato la nascita di un Movimento – espressione di un Nuovo cinema italiano della contemporaneità, rivolto al futuro – che getti le basi di una rinnovata politica produttiva/distributiva. La sollecitazione non può prescindere, evidentemente, da un approfondito studio dell’espressione filmica e le sue contaminazione linguistiche con le altre arti audiovisive, al “prezzo” d’incorrere nelle contraddizioni della creazione/creatività; il groviglio, a volte inestricabile, di percezioni e visioni, flusso massmediale e comunicazione, sguardo e memoria. In estrema sintesi: ciò che dà vita ad una poetica. Il cinema, lo si sa, è figlio di molti padri. Nella “parentela”, esplicita o esplicitata, con le arti plastiche, la musica, il teatro, la letteratura, risiede la propagazione dell’intuizione creativa. Si prenda la fotografia, definita – con la parole di Barthes – apparenza privata del suo referente”. Nessuno può misconoscere che il cinema ne rappresenti la “complicazione” in termini di temporalità ed eternizzazione. E, tuttavia, basterebbe soffermarsi sul potere illusorio dell’immagine fotografica – proprio in quanto espressione di una realtà statica, contrariamente a quella filmica – per addentrarsi in un territorio concettuale, quello della visione intuitiva (in divenire), dai confini illimitati. Allora, anche la differenza tra uno scatto rubato, talvolta “sporco”, rispetto ad uno a lungo elaborato, non è poi molta. E’ l’Immagine, la sua “utilità” evocativa, ad imporsi su tutto. A partire dalla composizione dell’inquadratura, la disposizione o la ricerca del soggetto (involontario), l’angolazione e le risorse di luce, da considerarsi fonti di analisi introspettiva ed esplorazione del “perché creativo”. Immagine, come racconto della realtà e, al tempo stesso, trasfigurazione della stessa, sia questa, come si diceva, rubata o “inventata”; espressione tangibile di un sentimento o riverbero del medesimo. Il richiamo va all’opera del grande fotografo Mario Giacomelli, alla sua capacità d’impressionare la pellicola come si lavora su verso poetico; il proposito di riscrivere le cose – secondo la sua stessa testimonianza – “cambiando il segno, la conoscenza abituale dell’oggetto, dare alla fotografia una pulsazione emozionale tutta nuova”. Così il linguaggio diventa “traccia, necessità, spirito, dove la forma sprigiona non dall’esterno ma dall’interno, in un processo creativo. Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco ‘mangiato’, il nero chiuso, sono esplosione del pensiero che dà durata all’immagine”. Da qui la contaminazione con l’espressione filmica: l’Idea germinata da un presente che evoca il suo un futuro prossimo. Giacomelli usò sempre una macchina Comet Bencini, a cui apportò delle modifiche per adattarla alle sue necessità espressive. Un atto di fede verso la fotografia-verità, ma che non che ne preclude, a guardar bene, una emancipazione. E’ innegabile, a tal proposito, che l’attuale dominio dell’immagine digitalizzata su quella tradizionale, con la possibilità di manipolazione spinta della stessa, non solo non mettono in discussione la funzione di verità dell’arte visiva, ma ne consentono la sua reinvenzione. Una propensione che fu propria di Margaret Bourke-White – altra prestigiosa firma della fotografia mondiale – e di certo non per ragioni anagrafiche, giacché era nata all’inizio del secolo scorso. Le sue foto sono avveniristiche interpretazioni della vita: la sua ricerca, quella dell’immagine “Altra”; qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, perché – come ebbe modo di dichiarare – “un fotografo, oltre ad essere un essere umano non comune, è capace di guardare in profondità dove gli altri tirerebbero dritto”. Concezione complementare, a quella di Robert Doisneau, cantore per eccellenza della quotidianità. Fotografia, la sua, intesa come pretesto, occasione; esercizio sul tempo e la memoria. Continuazione di un sogno. “Mi sveglio al mattino” – raccontava – “con una straordinaria voglia di vivere, di vedere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, però, per non rischiare di veder svanire l’entusiasmo”. Diversamente, ma solo in parte, Man Ray – prima pittore d’impronta cubista, poi fotografo che anticipò il surrealismo, – non nascondeva il profondo desiderio d’artista di confondere tutte le arti, così come ogni cosa si fonde e confonde nella via reale. Esigenza di un’espressione artistica, pur nella sua rivendicata riconoscibilità, che
trae alimento dalla contaminazione. Immagini-visioni, dunque, quale motivo di scoperta interiore, enunciazione del non visibile/ non detto, ma presente-ascoltato attraverso lo sguardo soggettivo. E’ quanto attiene alla creatività e alla sua ragione d’essere; l’Illuminazione nell’assenza di pensiero, sogno, rimembranza. La profanazione dell’abitualità; il ritorno ad una condizione di vitalità, prima sopita. La creatività-deduzione, in tal senso, altro non è che la necessità insopprimibile d’agire – inventare, scardinare l’ordinario, mettendo al centro l’Individuo e l’universo emotivo che vi abita. Quello di cui necessita l’immagine filmica, oggi, Uno sguardo ed una visione che vivano di assonanze e di rimandi, di realtà – rappresentata, inventata – e della sua trascendenza. Naturale derivazione di una immagine fotografica che cessa di rappresentare l’irriproducibilità del trascorso, per assurgere a tramite della sua eternizzazione.
Roberto Petrocchi
Poetica filmica ed estetica della contaminazione linguistica
Poetica filmica ed estetica della contaminazione linguistica
Poetica filmica ed estetica della contaminazione linguistica